Lo Scriba
Prima puntata: Il peso della carta
C’è un silenzio che non è pace. È attesa. È spossatezza. È
il respiro trattenuto di chi sa di non potersi fermare, anche se ogni fibra del
corpo grida di farlo.
Lo Scriba conosce quel silenzio. Lo sente ogni mattina,
quando apre la finestra del suo piccolo appartamento e il sole del sud
accarezza le strade vuote. Il mare è vicino — lo sente nell’aria, nel profumo
che sale— ma lui non ci va. Non più.
Una volta, camminava lungo la spiaggia con un taccuino in
mano, annotando frasi che gli venivano come uccelli in volo: improvvisi,
liberi, necessari. Ora, cammina tra corridoi di uffici, con una cartellina di
plastica tra le dita, e dentro ci sono moduli E 1/2 no anzi deve essere
E1/1 se pur ugali sono diversi e poi il A-38,
B-12, C-99, e chissà quanti altri. Lettere e numeri che non raccontano storie.
Che anzi, le cancellano.
Il suo vero nome nessuno lo ricorda. Per tutti è il
funzionario con la grafia chiara, quello che compila bene, che non sbaglia i
codici. Ma dentro di lui, qualcosa si ribella. Piano. Silenziosamente. Come un
seme sotto la pietra.
La burocrazia non è un nemico con volto. È un’atmosfera. Un
clima. Un’aria pesante che ti entra nei polmoni e ti convince che tutto questo
— le file, le scartoffie, le ore perse — sia normale. Necessario. Giusto.
Ma non lo è.
Lo Scriba lo sa. E ogni giorno, mentre digita numeri su uno
schermo opaco, mentre firma in calce a documenti che non legge più, sente
qualcosa di sé spegnersi. Non è solo il tempo che perde. È l’anima. È la
capacità di sognare. Di credere. Di raccontare.
Una volta, aveva scritto un racconto su un uomo che viveva
dentro un orologio. Il tempo lo avvolgeva come un serpente, e lui non poteva
sfuggirgli. Ora si sente come quel personaggio. Ma senza più la forza di
immaginare una via d’uscita.
Finché, un pomeriggio, accade qualcosa di impercettibile.
Una folata di vento entra dalla finestra socchiusa. Porta
con sé il profumo del gelsomino, del sale, del pane appena sfornato da una
vecchia panetteria all’angolo. Un profumo che non appartiene a questo mondo di
carta e silenzio.
E per un attimo — un solo attimo — lo Scriba chiude gli
occhi.
Rivede le sue mani, giovani, che tracciano parole su un
foglio bianco. Rivede una donna che sorride leggendo una sua storia. Rivede un
bambino che ascolta incantato, gli occhi sgranati, mentre lui racconta di un
drago fatto di nuvole e di un principe che viaggiava in groppa a un faro.
Il cuore gli batte forte. Troppo forte.
Apre gli occhi. È ancora lì. Davanti al modulo E 01/1. Con
la penna in mano.
Ma qualcosa è cambiato. Ora cìè la postilla.
Posa la penna. Non sul modulo. Sul tavolo.
Prende un foglio pulito. Bianco. Vuoto.
Non è un modulo. Non ha codici. Non ha intestazioni. È solo
carta. Ma per lui, è un abisso. È un inizio.
E con una mano che trema appena, scrive la prima parola:
"C’era..."
Smette. Respira. Guarda la parola. È fragile. È viva. Sorride.
Un sorriso piccolo, nascosto. Ma reale.
Fuori, il mare brilla. E per la prima volta da mesi, lo
Scriba sente che forse, forse, non è troppo tardi.
Forse, le storie non sono morte.
Forse, sono solo in attesa.
E forse, proprio adesso, la sua sta per ricominciare.
Lo Scriba e il Labirinto di Carta
C’era una volta un uomo che viveva di storie. Non le leggeva
soltanto, non le ascoltava: le creava. Le intrecciava con la penna, le faceva
respirare, le lanciava nel mondo come uccelli dal nido della sua mente. Viveva
in una terra dove il sole non si limitava a brillare, ma abbracciava — un caldo
denso, dorato, che si posava sulla pelle come un bacio antico. Ogni tramonto
era un invito. Ogni brezza portava il profumo di un’avventura non ancora
raccontata.
Ma da tempo, le sue storie erano mute. Imprigionate in un
cassetto, sì, ma soprattutto nel silenzio del suo cuore. Un sortilegio le aveva
rubate. Non era un drago di fuoco, né un incantesimo pronunciato da una strega.
Era qualcosa di più sottile, di più pervasivo: la Burocrazia. Un labirinto
senza mura, senza porte, senza fine. Un regno grigio, fatto di moduli da
compilare, di codici da memorizzare, di scadenze che si inseguivano come ombre.
Un regno governato da una regina invisibile, mai vista, mai nominata, ma
obbedita da tutti.
Ogni giorno, lo Scriba vi si perdeva. I suoi pensieri, un
tempo liberi come falchi che planano sul mare, ora erano costretti a correre
tra numeri di protocollo, sigle arcane, domande senza senso. Si sentiva come un
personaggio di Kafka: non più un uomo, ma una lettera, un codice, un
ingranaggio minuscolo in una macchina enorme, fredda, che nessuno sembrava
controllare.
«Compila il modulo A-38 per poter accedere al modulo B-12»,
gli dicevano voci senza volto, da dietro sportelli di vetro opaco. E lui
obbediva. La sua anima di narratore si era ridotta a una stringa di caratteri
alfanumerici. A volte, davanti a una porta scrostata, gli sembrava di leggere
una scritta antica, beffarda: "Il lavoro ti rende libero". Ma qui non
c’era libertà. C’era solo obbedienza. Non creare, ma compilare. Non dare forma
ai sogni, ma riempire celle in un foglio di calcolo infinito. La libertà era
un’illusione, una trappola ben confezionata da una Volontà Superiore di cui
ignorava tutto, tranne il peso delle sue richieste.
La sua penna, che un tempo danzava descrivendo mondi
lontani, eroi silenziosi, amori impossibili, ora tremava sopra moduli in
triplice copia, destinati a una posta che non esisteva più, se non nei ricordi.
Fuori, il sole del Mediterraneo accarezzava le onde. Dentro, lui era sepolto
sotto torri di carta bollata, timbri rossi, bolli blu. Il labirinto non aveva
un centro. Non aveva un Minotauro da sconfiggere. Era il mostro. Fatto di
procedure, di silenzi, di attese infinite. E si nutriva del tempo, dei sogni,
dell’anima degli uomini.
Aveva dimenticato il sapore delle storie. Fino a quel
pomeriggio.
Una brezza calda entrò dalla finestra socchiusa. Portava con
sé il profumo del sale, dei fiori di gelsomino, del mare. Un profumo antico. Un
messaggio.
Lo Scriba posò la penna a sfera. Guardò la pila di carte sul
tavolo. Non erano più un labirinto. Erano solo carta. E lui, in fondo, era uno
che di carta se ne intendeva.
Con un respiro profondo, prese un foglio bianco. Non un
modulo. Un foglio vuoto. E cominciò a scrivere. Una parola. Poi un’altra. E
un’altra ancora.
Non un numero di protocollo. Una storia. La sua storia.
E ogni parola era un mattone che sgretolava le mura del
labirinto. Perché le uniche magie vere non sono quelle che imprigionano, ma
quelle che liberano. E la più potente di tutte è il racconto.
Io, seduto all’ombra di un bar, ne ascoltavo il mormorio,
come si ascolta il vento tra i rami. Dissetandomi.
Fu allora che la vidi.
Una piccola ombra si avvicinò al mio tavolino. Non era
un’ombra qualunque. Era una bambina. I suoi occhi erano grandi, scuri come la
notte, e dentro c’era qualcosa che spezzava il cuore: una fierezza triste, una
dignità che non aveva più niente da perdere.
Tendeva la mano, ma non per chiedere un giocattolo, né un
dolce. Chiedeva un attimo. Un attimo della nostra attenzione. Un attimo della
nostra umanità. Un attimo della sua stessa sopravvivenza.
Aveva la bellezza straziante delle donne di Siria — una
bellezza che non è solo volto, ma resistenza. Una bellezza che fa tremare il
mondo perché lo ricorda di ciò che ha dimenticato.
E in quel caldo pomeriggio, mentre il mare brillava poco
lontano, mi sentii trasportare in un freddo giorno di dicembre, in una fiaba
che credevo solo una storia: quella della Piccola Fiammiferaia. La bambina
danese morta congelata, con un sorriso sulle labbra, sognando calore in un
mondo di ghiaccio.
Ma questa bambina non sarebbe morta di freddo. Il suo nemico
era il caldo crudele, l’acqua sporca, la fame, la guerra che le aveva già
rubato tutto — la casa, la scuola, l’infanzia. Le aveva rubato persino il
diritto di essere bambina.
La sua fiaba non era una favola. Era dannatamente reale. Un
filo nero che si dipanava dal mio bar fino al dolore di Gaza, all’angoscia
dell’Ucraina, ai campi profughi dove i sogni si spengono prima di nascere.
E mentre il mio cuore si spezzava per lei, il mio sguardo
cadde sull’ampia vetrina luminosa di fronte. Un tempio. Di orologi svizzeri.
Perfetti. Impeccabili. Freddi come ghiaccio.
Ogni quadrante era un piccolo sole d’oro. Ogni lancetta un
bisturi che seziona il tempo in frammenti preziosi, in minuti che valgono
milioni.
E in quel silenzio dorato, mi parve di sentire un rintocco.
Non di un orologio. Di una campana. Una campana di guerra.
Immaginai allora un’altra favola. Oscura. Per adulti. Quella
di un regno nascosto tra le pieghe del tempo, fatto non di foreste incantate,
ma di confessionali bancari, di stanze blindate, di archivi segreti dove si
pianificano conflitti come se fossero operazioni finanziarie.
In questo regno, il vero motore non è la magia, ma un
ingranaggio perfetto e spietato: l’Oro. Un Oro che si trasforma in orologi, e
quegli orologi, così belli e silenziosi, segnano l’ora dei bombardamenti, il
ritmo delle speculazioni, il battito di un sistema che vive della guerra.
È la battaglia tra due mondi, vedi? Da una parte il nuovo:
un mondo digitale, aperto, condiviso, che promette libertà, connessione,
progresso. Dall’altra, il vecchio: un sistema consolidato, potente, che non
vuole morire. Un cuore che batte con il tick-tack di un meccanismo svizzero. Un
cuore che non si ferma. Che non vuole perdere la sua presa.
E allora, vendere quei meravigliosi orologi non è più solo
business. Diventa un incantesimo. Un atto di potere. Uno sfarzo ostentato, uno
splendore abbagliante che acceca. Che ci fa credere che il tempo sia denaro, e
non vita. Che ci distoglie dal vedere la realtà delle guerre, per mostrarci
invece una facciata — elegante, rassicurante, menzognera.
Gli orologi nella vetrina brillavano, indifferenti.
Rintoccavano per la bambina siriana. Per i bambini di Gaza. Per le madri in
lutto dell’Ucraina. Erano campane di guerra per un mondo fragile, disperato,
che troppo spesso preferisce il luccichio di una menzogna antica alla luce
cruda, ma necessaria, della verità.
E la piccola fiammiferaia, intanto, aveva già voltato le
spalle. Si era dissolta nel caldo pomeriggio, un fantasma reale in un mondo di
favole crudeli.
Ma io la sentivo ancora. Nel silenzio. Nella brezza. Nella
penna dello Scriba che aveva ripreso a scrivere.
Perché forse, soltanto forse, una storia può ancora salvare
il mondo.
O almeno, salvarne un pezzetto.
E questa, forse, è l’unica magia che ci resta.
prosegue ...
Terza puntata;