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III Puntata: Il Velo del Labirinto

 

 Lo Scriba

III Puntata: Il Velo del Labirinto


(Un filo di Arianna per Cartagine e il presente)

 Anche qui, a Cartagine, l’aria di settembre è lievemente più dolce.

Il sole non brucia più come in luglio.

Il vento del Capo Africa accarezza le mura di Byrsa come un respiro antico.

La qualità del clima resta confortevole.

Ma non l’anima della città.

 

Ieri, al mercato del porto, un mercante di Gaza — sì, esisteva già un villaggio con quel nome, sulla costa orientale del Mediterraneo — ha raccontato di un episodio:

un tempio incendiato.

Un popolo in esilio.

Una promessa tradita.

 E subito, come sempre, qualcuno ha estrapolato l’episodio dall’insieme, lo ha sbranato con le parole, lo ha trasformato in una bandiera, in un grido di guerra, in un alibi per l’odio.

 

“Loro sono così.”

“Noi siamo migliori.”

“È colpa loro.”

 

Ma chi sono “loro”?

E chi sono “noi”?

E da quando la sofferenza di un popolo diventa un pretesto per giustificarne un’altra?

 

Il labirinto delle storie

Mi sono seduto accanto al pozzo del cortile, dove il gelsomino fiorisce anche in estate.

Ho pensato: quante volte, nei secoli, la verità è stata spezzata, ridotta a frammento, usata per dominare?

 Non è colpa dei mercanti.

Non è colpa dei soldati.

È colpa del sistema delle storie.

 

Per secoli, i sacerdoti, i re, i poeti, i nemici — soprattutto i nemici — hanno educato le menti a vedere il mondo in due parti:

amico/nemico,

puro/impuro,

nostro/altrui.

E ogni volta che qualcuno racconta un episodio fuori contesto, non sta parlando di giustizia.

Sta alimentando un imprinting sociale: il riflesso condizionato del rifiuto.

 

Come il serpente che non morde, ma che tutti fuggono per paura di essere avvelenati.

 E così, la memoria viene cancellata non con il fuoco, ma con la semplificazione.

Perché chi riduce la storia a un grido, ha già vinto la guerra. Anche se perde la pace.

 

Il filo di Arianna: non per uscire, ma per non smarrire

È allora che ho capito:

Cartagine non è solo una città.

È un labirinto.

E il labirinto non è fatto di pietre.

È fatto di narrazioni, di silenzi, di nomi cancellati, di verità sepolte sotto l’odio comune.

 

E il filo di Arianna non serve a uscire.

Serve a non dimenticare chi si è mentre si cammina.

 

Ogni volta che qualcuno dice:

 Non è così semplice”, sta srotolando il filo.

 

Ogni volta che qualcuno ascolta senza giudicare, lo sta tenendo saldo.

 

Ogni volta che qualcuno ricorda un nome che non dovrebbe esistere —

come Qart-Hadašt, come Gaza, come Salammbô —

sta tessendo il filo nel buio.

 

Il reset impossibile

Se fosse possibile un reset, dovremmo cancellare non le pietre, ma le parole accumulate,

le mappe del nemico, i nomi dati alle terre altrui, le canzoni che glorificano la distruzione.

 Ma il reset, in vita,  è la guerra.

 

Ecco il paradosso: vogliamo purificarci, ma l’unico modo che conosciamo è distruggere.

E distruggendo, diventiamo ciò che volevamo cancellare.

 

Come Roma con Cartagine.

Come Cartagine con i mercenari.

Come ogni città con il proprio specchio.

 

Quale strada fare?

Camminavo verso Megara, dove i giardini pensili stillavano acqua dai canali di mattoni, quando ho rivisto Abd-Melqart.

Era seduto sulla stessa pietra, con la kinnor in grembo.

Ma questa volta non suonava.

 

«Ti vedo pensieroso», disse.

«Il mondo brucia, e tu non gridi.»

«Non so più chi sono», risposi.

«E non so più chi odiano quando dicono “noi”.»

 

Rise piano.

«È un buon segno.

Quando smetti di sapere chi sei, allora cominci a vedere.»

 «E cosa vedo?»

«Che non c’è una strada.

C’è solo il passo.

E il passo giusto non è quello che va verso la vittoria, ma quello che non calpestra il ricordo.»

 

Tacqui. Poi chiesi:

«E se il mondo continua a gridare?

Se il popolino si nutre di veleno e lo chiama verità?

Se la logica dell’odio diventa intelligenza comune?»

 

Sorrise.

«Allora diventa incantatore di serpenti.

Non per dominarli. Ma per mostrare che il serpente non morde se non viene calpestato.

E il veleno, in fondo, è solo paura trasformata in potere.»

 

L’incantatore di serpenti

Non sono un guerriero.

Non sono un sacerdote.

Sono solo un uomo che ricorda.

E a volte, ricordare è l’unico atto di pace possibile.

 

Perché mentre gli altri gridano, io resto in silenzio.

Mentre altri seminano odio con una frase strappata al tempo, io cerco il contesto.

Mentre altri si consolano con “tanti godi e non ti preoccupare”, io mi chiedo:

 

Chi ha deciso che il futuro non sia anche mio?

 

Ma non lo dico ad alta voce.

Parlo piano. Come si parla a un serpente.

Con rispetto.

Con calma.

Senza gesti bruschi.

 

Perché so che il vero veleno non è nel morso, ma nella paura di essere morsi.

 E il popolino, spesso, ha più paura del serpente che del fuoco che brucia la città.

 

Il faro non urla 

Cartagine non è più qui.

Eppure è qui.

Perché ogni volta che qualcuno rifiuta di semplificare, di odiare per appartenere, di gridare per sentirsi vivo, allora il faro si riaccende.

 

Non con un tuono.

Con un sussurro.

Con un gesto piccolo.

Con un silenzio che dice:

 “No.

Questa storia non la racconto così.”

 

E forse, è questo il reset possibile: non distruggere.

Ma ricominciare a parlare con verità.

Anche se nessuno ascolta.

Anche se il mondo continua a giocare con le carte del dolore.

 

Perché il gioco finisce solo quando qualcuno smette di giocare.

 

Il filo continua

E mentre il vento del Capo Africa portava via le parole, ho visto una foglia cadere sul mosaico del cortile.

Aveva la forma di una nave.

O forse di una carta da gioco.

 E ho sorriso.

Perché sapevo che, da qualche parte, un bambino avrebbe chiesto:

 “Cos’è questa nave?”

 

E qualcuno avrebbe risposto:

 “È Cartagine.”

 

E il filo, per un istante, sarebbe stato di nuovo in mano a qualcuno.

-mm-