
“Cartagine è qui.
Ora.
un respiro.
In un bacio.
In una carta voltata.”
Qart-Hadašt
Un racconto che non dovrebbe esistere
“Cartagine non è morta. È diventata un faro del tempo.”
I. L’Alba del Ricordo
L’alba sorgeva dolcemente sul punto più alto della collina di Byrsa, dove si trova Sykka, il cuore antico della città.
Dalla finestra della mia casa, al sesto piano — una dimora tra le più elevate di Cartagine — lo sguardo spaziava lontano: tetti ocra e rosso tufo, cortili interni con mosaici di pietra e terracotta, e poi il porto circolare, segreto e potente, pieno di navi da guerra con le prue dorate rivolte al mare, come dita pronte a stringere il destino.
Più in là, il Mediterraneo si accendeva di luce pallida, un velo d’argento sull’acqua.
Ma io non guardavo il mare.
Guardavo il riflesso nel vetro.
E in quel riflesso, a volte, vedo un uomo più vecchio.
Con i miei occhi.
Ma non la mia età.
Dal giardino interno saliva il profumo dei gelsomini — denso, dolce, quasi proibito.
Si infilava tra le tende di lino, si posava sulla pelle come un tocco furtivo.
Sapeva di notti d’estate, di pelle nuda, di parole sussurrate tra le colonne.
Ma sapeva anche di cenere.
Di un odore che non c’era ancora.
Che non c’era mai stato.
Eppure lo riconoscevo.
Nel bagno privato, mi specchiavo.
L’acqua scorreva lenta, fresca, dalle tubature di piombo — un lusso che pochi possono permettersi, ereditato dai Fenici, perfezionato dagli ingegneri di Cartagine.
Non è solo comodità. È potere. Silenzioso. Domestico.
Mi lavavo il viso. Passavo le dita sul collo, sul petto. Ogni gesto era un rituale.
Il vetro opaco di stagno e rame mi restituiva un’immagine sfocata, come se il mio io fosse sempre sul punto di sfuggirmi.
Eppure, in quel momento, esistevo. Più che mai.
Ma a volte, mentre mi asciugo, sento una voce — non dentro le orecchie, ma dentro le ossa — che sussurra:
“Tu sei già morto. Eppure sei qui.”
Stavo ancora asciugandomi, la pelle umida, quando sentii bussare.
Un tocco lieve. Timido. Come se avesse paura di disturbare il respiro della casa.
Apro la porta del bagno.
E la vedo: lei.
In piedi sulla soglia del cortile, con una tunica di lino porpora — lo stesso colore dei sacerdoti di Tanit, lo stesso colore della porpora di Tiro, dove una volta una regina di nome Elissa fuggì con il fuoco sacro e fondò una città.
I capelli neri, sciolti, trattenuti da una sottile fascia d’argento — un dono, mi disse una volta, di una nonna siriana che parlava quattro lingue e pregava a mezzanotte.
Ha diciannove anni, ma nei suoi occhi c’è qualcosa di antico.
Di esiliato.
Di sopravvissuto.
Non dice nulla. Sorride appena. Con gli occhi.
So che è siriana. So che il suo popolo ha fondato porti in ogni angolo del mare. So che le donne della sua terra non parlano spesso, ma quando lo fanno, gli imperi ascoltano.
Entra piano. Il suo profumo — mirra, cannella, un accenno di gelsomino — si mescola all’aria del mattino.
Fa qualche passo. Posa la mano sulla parete di pietra fresca. Poi la solleva.
E con la punta delle dita, mi sfiora il petto, ancora umido.
Il tocco è caldo. Lento. Preciso.
Come se stesse scrivendo una storia che nessuno potrà cancellare.
«Sapevo che saresti venuta», mormorai.
«Lo sapevi», risponde, senza voce.
Ma c’è qualcosa di strano.
Ogni volta che viene, il tempo cambia.
Il vento si ferma.
Il canto degli uccelli si interrompe.
E per un istante, Cartagine diventa silenziosa.
Come se la città trattenesse il fiato.
E in quel momento, mentre il sole inonda il cortile e la sua pelle sfiora la mia, penso a noi.
A questa città.
Qart-Hadašt.
La Città Nuova.
Così ci chiamiamo.
Fondata da Elissa, fuggita da Tiro con il fuoco sacro nel cuore.
Costruita su questa collina come un sogno di pietra e mare.
Ma i Romani la chiamano Carthago.
Un nome che suona come carta — fragile, destinata a bruciare.
Come se volessero cancellarci già con le parole, prima ancora delle spade.
Eppure…
io so che un giorno, in un mondo lontano,
un bambino terrà in mano un mazzo di carte.
E su una di esse, vedrà una nave con la prua d’oro.
E sentirà un profumo di gelsomini.
E qualcuno gli dirà:
“Questa è Cartagine.”
Come faccio a saperlo?
Non lo so.
Ma lo so.
Cartagine non è carta.
È pietra.
È fuoco.
È memoria.
E finché c’è un respiro, un battito, un tocco come questo,
la sua storia non finirà.
È ancora viva.
È ancora qui.
Lei si avvicina. Il suo fiato è sulla mia spalla. Poi sul collo. Poi sulle labbra.
Fuori, Cartagine si sveglia: i mercati si aprono, i rematori salpano, i sacerdoti accendono i fuochi nei templi.
Ma qui, in questa casa sospesa tra cielo e mare, il mondo si è ridotto a un respiro, a un tocco, a un profumo che non sa di chi è —
e a Qart-Hadašt.
Sempre.
II. La Strada verso Megara
Dopo che se ne fu andata, lasciando solo il calore della pelle e il ricordo di un respiro tra i capelli, scesi a piedi verso nord-est, dove la città si apre in spazi più ampi, più silenziosi.
Volevo camminare. Sentire la pietra sotto i sandali, il sole sulle spalle, il vento che scendeva dalle mura come un alito antico.
Ma mentre camminavo, mi accorsi di una cosa:
nessuno mi vedeva.
I mercanti non mi salutavano.
I bambini non mi guardavano.
Eppure ero lì.
Toccai una colonna. Era fredda. Reale.
Ma il mondo intorno a me sembrava un’eco.
Mi diressi a Megara — non il mercato, ma il quartiere delle ville con giardini, dove vivono i mercanti più ricchi e i veterani di guerra.
Oggi lo chiamano zona di Amilcar, in onore del grande generale. Ma qui la storia ha radici più profonde.
Le case sono più larghe che a Byrsa. Meno alte, ma più ariose.
Grandi orti con fichi, limoni, palme dataglie.
Alcune hanno giardini pensili, costruiti su terrazze di mattoni cotti, con canali che portano acqua fino alle radici — un’eredità di Babilonia, portata fin qui da ingegneri itineranti.
Quando il vento soffia, sembra che la terra stessa canti.
I colonnati sono in stile ellenistico — eleganti, slanciati — segno dell’influenza greca.
Ma Cartagine non imita: assorbe, trasforma, domina.
Camminavo lentamente quando lo vidi: un uomo seduto all’ombra di un colonnato, su una pietra levigata dal tempo.
Capelli grigi in trecce sottili, pelle scura come cuoio di vela.
Teneva in grembo una kinnor, un’arpa a dieci corde, e le sue dita ne traevano suoni lievi, come parole senza voce.
Mi fermai.
«Vieni da Byrsa, vero?», chiese, senza alzare gli occhi.
«Si sente nell’andatura. Troppo veloce per Megara. Troppo leggero per essere un soldato.»
«Sono di Cartagine», risposi.
«E tu? Chi sei?»
Alzò lo sguardo. Occhi gialli, come quelli dei gatti del tempio.
«Io sono colui che ricorda. Un cantastorie. Mi chiamo Abd-Melqart.»
«E cosa racconti?»
Posò l’arpa. Il silenzio fu più forte di qualsiasi parola.
«Racconto Qart-Hadašt non come una città, ma come un sogno.
Un sogno che i Romani chiamano Carthago — come carta da bruciare.
Ma questa carta... un giorno sarà più forte del fuoco.
Entrerà in un mazzo più grande, più complesso.
Nella sua ambiguità, nel segno del seme, avrà un futuro nella storia degli uomini.
Anche se noi usiamo tessere di terracotta come "scontrini",
saranno le carte a portare il nostro nome nel mondo.
Perché il mondo dimentica i vinti,
ma non dimentica il simbolo.»
Tacque. Poi:
«Arriveranno tempi in cui sarà proibito piangere per Cartagine in pubblico.
Tempi in cui il nostro nome sarà calpestato.
Eppure... finché c’è chi racconta, Qart-Hadašt non sarà mai perduta.»
Lo guardai.
«Tu mi vedi.»
«Certo», disse.
«Perché anche tu sei un ricordo.
E i ricordi si riconoscono.»
Riprese a suonare. Una melodia antica, che sembrava venire da un tempo prima delle parole.
Me ne andai senza salutare. Non era necessario.
Camminai ancora, tra ville silenziose, orti profumati, colonne illuminate dal sole.
E mentre il vento portava con sé il suono dell’arpa, capii.
Cartagine non è carta.
È pietra.
È fuoco.
È voce.
E finché qualcuno continuerà a raccontarla,
sarà ancora viva.
III. Il Banchetto a Megara
E mentre camminavo, mi apparve un’altra scena — come un’ombra del passato o un presagio del futuro.
Era a Megara, nei giardini di Amilcare.
Un banchetto. Vino, danze, risa.
Si celebrava la vittoria nella battaglia di Erice, contro Roma.
Ma Amilcare non c’era.
E i mercenari, stanchi, mal pagati, ricordavano il modo crudele in cui Cartagine li aveva trattati.
Cominciarono a saccheggiare.
Apparve Salammbô, sua figlia.
Bella, severa, vestita di bianco.
Li supplicò: «Godetevi il banchetto. Ma non distruggete ciò che è sacro.»
Due uomini la fissavano:
- Narr’Havas, capo numida, ospite onorato.
- Màtho, un guerriero libico con una collana a forma di luna.
Lei porse a Màtho un bicchiere di vino.
Lui bevve.
Un soldato gallico sussurrò: «Da dove vengo io, questo è un dono d’intimità.»
Narr’Havas, geloso, scagliò un giavellotto. Màtho cadde.
Scoppiò la colluttazione.
Salammbô fuggì.
E Màtho, ferito, la guardò allontanarsi, perplesso, con gli occhi pieni di desiderio e dolore.
E io, mentre osservavo, capii:
non stavo vedendo il passato.
Stavo vedendo il futuro.
Un futuro che sarebbe venuto.
E che sarebbe finito in cenere.
Ma anche in memoria.
IV. Il Vento tra i Gelsomini
Non fu un incontro.
Fu un ritorno.
Lei entrò nella stanza come un’ombra che conosce la luce.
Non accese lanterne.
Non chiamò il mio nome.
Sapeva che l’avrei riconosciuta dal profumo — gelsomini, mirra, un accenno di sale marino.
E dal modo in cui il vento si fermava quando varcava la soglia.
Era notte.
A Byrsa, le torce tremolavano lungo i muri di pietra.
Il Mediterraneo, laggiù, brillava come una lama nera.
Ma qui, in questa casa sospesa tra cielo e mare, il tempo non scorreva.
Ponderava.
«Credevo di averti sognata», dissi.
«No», rispose. «Tu mi ricordi. È diverso.»
E in quel momento, sentii la musica.
Non era nei tamburi del porto, né nei canti dei sacerdoti.
Era dentro.
Come un battito che non era il mio.
Una melodia lenta, struggente, fatta di archi che si aprono come ali, di flauti che tremano come foglie.
“Nuit d’ivresse… nuit d’amour…”
La notte dell’estasi.
La notte d’amore.
Berlioz.
Ma lui non era nato.
Non ancora.
Eppure, la musica era lì.
Come se il desiderio avesse la sua colonna sonora,
e questa fosse stata scritta molto tempo dopo,
per ricordare ciò che era già accaduto.
Troia e Cartagine: due città, una sola anima
«Stavi pensando a Troia», disse lei, senza guardarmi.
«Come fai a saperlo?»
«Perché anche io la sento.
La città in fiamme.
Il canto delle donne.
Il silenzio dopo l’urlo.
È lo stesso respiro di Cartagine.»
Mi voltai verso il mare.
«Troia è morta in un giorno.
Noi moriremo in cento anni.
Ma la fine sarà la stessa:
fuoco, silenzio, oblio.»
Lei sorrise.
«No.
Troia è morta.
Ma Cartagine no.
Perché Troia ha avuto Omero.
Noi avremo il vento.
E il vento non scrive poemi.
Li trasporta.»
Berlioz e Monteverdi: due voci del tempo
La musica cresceva.
Sembrava venire dai muri, dal pavimento, dal sangue.
Era Berlioz — ma con un’anima più antica.
Quella di Monteverdi.
Lui, il maestro di L’Orfeo, di Pur ti miro, di Lamento della Ninfa,
aveva compreso una verità:
l’amore è un canto che sopravvive alla morte.
Berlioz lo riprese, secoli dopo, con orchestre immense, corni dorati, cori celesti.
Ma il cuore era lo stesso:
una donna che ama,
e sa che sarà tradita,
e ama lo stesso.
«Monteverdi ha scritto il primo addio», disse lei.
«Berlioz ha scritto l’ultimo.
E noi…
noi stiamo nel mezzo.
Nella notte tra il respiro e il silenzio.»
Nuit d’ivresse – La notte dell’estasi
Accese una sola candela.
La luce danzò sulle pareti, tra i mosaici antichi.
Poi si avvicinò.
Non parlò.
Posò la mano sul mio petto.
La pelle era calda.
Il respiro lento.
E fu allora che cominciò.
Non fu un bacio.
Fu un riconoscimento.
Le labbra si sfiorarono come due fiumi che si incontrano dopo secoli.
Le mani scivolarono lungo la schiena, non per prendere, ma per trattenere.
Per dire: “Esisti. E io ti vedo.”
La musica di Berlioz esplose —
archi che si aprono come cielo,
trombe che annunciano una fine,
e un canto femminile che sale,
lento,
dolente,
eterno.
“Nuit d’ivresse… nuit d’amour…
Ô douce heure, ô moment volage…”
Notte d’estasi… notte d’amore…
O dolce ora, o istante fugace…
E in quel momento, capii:
non stavamo solo facendo l’amore.
Stavamo resistendo.
Con ogni tocco, con ogni respiro,
stavamo dicendo:
“Cartagine non brucerà.”
“Noi saremo ricordati.”
Il vento tra i gelsomini
Dopo, restammo in silenzio.
Fuori, il vento si era alzato.
Muoveva le tende di lino,
portava con sé il profumo dei gelsomini,
e una voce lontana —
forse del cantastorie,
forse del mare,
forse della città stessa.
Lei appoggiò la testa sulla mia spalla.
«Domani mi chiederai se sono reale», disse.
«E io non risponderò.
Perché non importa.
Quello che importa è che mi hai sentita.
E chi sente, salva.»
«Chi sei veramente?»
«Sono chi ricorda.
Sono chi ama.
Sono chi non lascia che il fuoco abbia l’ultima parola.
Sono la figlia di Elissa.
La sorella di Didone.
La sacerdotessa di Tanit.
E la tua amante.
Tutto in una notte.
Come deve essere.»
Epilogo: la musica che non è mai stata scritta
Quando se ne andò, la musica non cessò.
Continuò a risuonare,
non nelle orecchie,
ma nelle ossa.
E capii che Berlioz non aveva inventato nulla.
Aveva solo ascoltato.
Aveva sentito, attraverso i secoli,
questa notte,
questo tocco,
questo vento tra i gelsomini.
E lo aveva tradotto in note,
perché il mondo non dimenticasse
che Cartagine non è morta.
È qui.
Ora.
In un respiro.
In un bacio.
In una melodia che non dovrebbe esistere,
ma che esiste lo stesso.
Perché l’amore è l’ultima difesa contro l’oblio.
E il vento, tra i gelsomini,
è la voce della memoria.
V. Il Mercato del Porto
Il porto non dorme mai.
Già all’alba, il molo brulica: marinai con le braccia segnate dal sale, caricatori curvi sotto sacchi di grano, mercanti che gridano in greco, libico, punico, aramaico.
L’aria è densa di sudore, resina, pescato fresco, e quel fondo di umidità antica che sembra uscire dalle pietre stesse del molo, come un respiro della terra.
Ma c’è un altro odore, più dolce, che serpeggia tra i banchi:
pane caldo, appena sfornato, spolverato di sesamo e timo.
Accanto, vasi di coccio con olive nere in salamoia, formaggio di capra affumicato, filetti di pesce arrostiti su griglie di ferro.
Una donna con le mani annerite volta le acciughe su una piastra rovente.
Un vecchio versa vino annacquato da un’anfora scheggiata, con un mestolo di legno che ha visto secoli.
È qui che la città mangia.
In piedi.
In fretta.
Con le mani sporche.
Questo è il vero cuore di Cartagine — non i templi, non le ville di Megara, ma questo chiasso, questo calore, questo pane che brucia le dita.
Dialoghi al banco del pesce
Un marinaio siriano si appoggia al bancone di pietra, con un boccale in mano.
«Quanto il pesce oggi?»
«Tre monete di rame. Ma se porti notizie, fa due.»
«Notizie? Di che?»
«Del nord. Di Roma. Di Màtho. Di Salammbô.»
Il siriano ride. «Salammbô? Quella non esce dal tempio.»
«Eppure ieri notte era fuori.»
«Chi lo dice?»
«Un mercante di gelsomini. L’ha vista vicino al giardino di Amilcar. Con un uomo.»
«Bugie. È consacrata a Tanit. Non può toccare un uomo.»
«E se lo ha toccato?»
«Allora Cartagine tremerà. Perché quando una sacerdotessa perde il velo, il cielo perde la luna.»
Un altro marinaio, libico, con una cicatrice sul collo, alza lo sguardo.
«Io l’ho vista.»
«Dove?»
«Non qui. Nel sogno.
Aveva il velo in fiamme.
E piangeva senza lacrime.
E intorno a lei, le navi bruciavano.
Ma non gridava.
Solo sussurrava:
“Non dimenticate il mio nome.”»
Silenzio.
Solo il crepitio del pesce sulla griglia.
Il suono del mare che batte sulle pietre.
Poi il siriano:
«Forse non è un segreto.
Forse è una profezia.
E noi siamo qui non per mangiare,
ma per ascoltare.»
L’incontro casuale
Mi avvicino a una bancarella di pane.
La venditrice, una donna con gli occhi chiari e una treccia grigia, mi porge una focaccia calda.
«È per te», dice.
«Non ho chiesto.»
«No. Ma tu sei quello che cammina senza rumore.
Quello che ascolta.
Quello che ricorda.»
La guardo.
«Chi ti ha detto questo?»
«Il vento. E una ragazza con una fascia d’argento.
È passata qui stamattina.
Ha comprato pane, ma non l’ha mangiato.
L’ha portato via.
Come un’offerta.»
«Salammbô?»
Annuisce.
«Ha chiesto di un uomo.
Un mercenario.
Con una collana a forma di luna.
Màtho.»
«E tu cosa le hai detto?»
«Le ho detto:
“Se lo cerchi, non è nei campi, né nei quartieri dei soldati.
È nei tuoi sogni.
Perché lui ti ha vista.
E chi vede Salammbô,
non può più vivere come prima.”»
Il segreto
Resto immobile.
Il pane è caldo tra le mani.
Il sole batte sul molo.
Ma io sento solo quelle parole.
Salammbô ha lasciato il tempio.
Ha cercato un uomo.
Un mercenario.
Un ribelle.
E non per desiderio.
Ma per dovere.
O forse per destino.
Perché se è vero che una sacerdotessa non può amare,
è anche vero che una donna può salvare una città.
E forse,
l’unico modo per salvare Cartagine
è rompere il velo.
È accendere il fuoco.
È amare qualcuno che non si può avere.
Epilogo: il pane e la memoria
Più tardi, mentre mi allontano,
lascio una moneta sulla bancarella.
La donna la prende.
Poi, piano, mi dice:
«Quando bruceranno Cartagine,
non bruceranno i sapori.
Il pane, il pesce, il vino annacquato…
Questi sopravvivranno.
Perché il popolo non dimentica ciò che ha mangiato.
E ciò che ha amato.»
E mentre il vento porta via le parole,
capisco:
il mercato del porto non è solo un luogo di scambio.
È un archivio del corpo.
Un luogo di verità.
Dove i segreti non si scrivono.
Si mangiano.
E Salammbô, anche se vestita di bianco,
anche se consacrata,
anche se proibita…
è già nel cuore di questa città.
Come il pane caldo.
Come il gelsomino.
Come il ricordo che non vuole morire.
VI. Il Mazzo di Qart-Hadašt
Narratore
Abd-Melqart…
ho pensato a quello che hai detto.
Che Cartagine vive nel mazzo di carte.
È una bella immagine.
Ma è solo poesia, no?
Abd-Melqart
Tu credi che la poesia sia meno vera della pietra?
Guarda queste colonne.
Erano alte, forti, eterne.
Ora sono spezzate.
Ma il vento che passa tra i loro resti…
quello è ancora lo stesso.
E il vento è fatto di poesia.
Narratore
Ma le carte… sono un gioco.
Abd-Melqart
E invece sì.
Il gioco è il tempio più antico.
E quando Roma distrusse Cartagine,
non sapeva che il destino non si cancella con il fuoco.
Si gioca.
Narratore
E noi… siamo una carta?
Abd-Melqart
Tu sei il Joker.
Io sono il Re di Picche.
Lei… è la Regina di Picche.
Màtho? Il Fante di Fiori.
Ogni volta che qualcuno pesca una di queste carte,
tira fuori un pezzo di noi.
Narratore
Allora… non siamo morti.
Siamo solo…
in attesa di essere giocati di nuovo.
Abd-Melqart
Esatto.
E ogni volta che un mazzo viene mescolato,
il cuore di Qart-Hadašt
ricomincia a battere.
(Un lungo silenzio. Il vento muove i gelsomini. Una foglia cade su una pietra antica. Sembra una carta.)
Narratore
Allora gioco?
Abd-Melqart
Hai già iniziato.
Da quando hai ricordato il suo nome.
VII. La Forma del Tempo
Il romanzo non comincia.
Ricomincia.
Apre con un’alba a Byrsa, con il Mediterraneo che si accende di luce pallida, con il profumo dei gelsomini che sale dal cortile interno.
Un uomo si specchia nell’acqua del bagno, con la pelle ancora umida, e sente bussare alla porta.
Una donna entra.
Tunica porpora. Fascia d’argento. Occhi che sanno cose che non possono esistere.
«Sapevo che saresti venuta.»
«Lo sapevi.»
È un incontro.
Ma non è il primo.
È un ritorno.
E ogni volta che si legge questo romanzo,
non si legge una storia.
Si partecipa a un rituale.
Perché ogni lettura è un nuovo inizio,
ma anche un ritorno.
E alla fine, non si chiede:
“Com’è finita la storia?”
Ma:
“Quando tornerà?”
E tornerà.
Sempre.
Finché ci sarà una mano a voltare la pagina.
Un cuore a riconoscere il profumo dei gelsomini.
Una voce a sussurrare:
“Cartagine.”
E allora,
il faro si riaccenderà.
Ancora.
Sempre.
Fine (che non è fine)
Così è fatto il romanzo:
non come una freccia che va dal principio alla fine,
ma come un anello di fuoco sospeso sul mare,
che brucia senza consumarsi,
che illumina senza scomparire.
E tu, lettore,
non sei fuori dalla storia.
Sei dentro il cerchio.
E ogni volta che giri pagina,
aiuti Cartagine a non morire.
Perché il romanzo non finisce mai.
È vivo.
Come lei.
Come il vento.
Come il nome che non si lascia cancellare.
MM