Un silenzio tra burocrazia e resistenza
È passato del tempo dall’ultima volta che abbiamo parlato.
Lo facciamo ora, su gentile richiesta — e con un po’ di fatica.
Il nostro silenzio non è stato una scelta, ma una
conseguenza: schiacciati da una burocrazia “made in Italy” che riesce a
raggiungerci persino qui, ai margini del mondo. È la stanchezza di coltivare un
campo di incertezze, cercando di non far crollare, in mezzo a un buio
programmato, la qualità della nostra fragile esistenza. Non vogliamo — e non
possiamo — rinunciare ancora. E ancora. E ancora.
Abbiamo già sacrificato molto. Abbiamo creduto con tutto il
cuore in speranze che sembravano benedette, ma che forse erano solo menzogne
ben confezionate.
Forse, sì, avremmo dovuto svegliarci prima.
Oggi, camminando sull’ultimo lembo di questa terra africana,
ci troviamo spesso smarriti tra la fragilità del resistere e l’arroganza tra espatriati di chi
cerca di riaffermare una presunta superiorità. Lo fanno per compiacersi, magari
battendo sulle spalle altrui — un lusso che non potevano permettersi, e
che ora si concedono a spese degli altri, semplificando ogni cosa.
Eppure, ovunque nel mondo, voci si levano — spesso grazie ai
social, strumenti imperfetti ma vitali — per ricordare, resistere, ricostruire:
non solo case, ma diritti. Non si tratta di eroi, ma di persone comuni che
rifiutano di voltarsi dall’altra parte. E in questa rete di voci, anche chi si
sente “nessuno” trova uno spazio per dire: “Io ci sono.”
Perché il “noi” che parla qui non è un collettivo
organizzato, né una voce autorevole. È semplicemente la prospettiva di chi si
sente nessuno — e proprio per questo prova a guardare il mondo senza illusioni
di superiorità, ma con rispetto per le complessità umane. Perché anche chi
opprime è spesso prigioniero di un sistema più grande di lui; e chi resiste non
è mai solo un simbolo, ma un essere in carne e ossa, con dubbi, paure e
desideri.
Lo scenario globale: Moldavia, Svizzera e il peso del
silenzio
Parlare delle tensioni internazionali oggi sembra un dovere,
ma spesso ci si ferma a una domanda sterile: “Da che parte stai?”
In queste ore di incertezza, mentre la crisi euroasiatica si
riaccende, la Moldavia va alle urne. Non abbiamo sentito i nostri amici laggiù,
né abbiamo osato chiedere. Immaginiamo il loro conflitto interiore: divisi,
eppure uniti da generazioni e da una diaspora che li ha allontanati da quelle
primavere che sembravano promettere un futuro luminoso. È doloroso constatare
come i sogni più belli possano essere ridotti in frantumi dalla realtà. La
diaspora moldava conosce bene questa storia.
Vedremo dove porteranno queste elezioni: la Moldavia è
stretta tra ambizioni e confini, tra povertà persistente e il sogno audace di
diventare la “nuova Svizzera dell’Est”.
A proposito di Svizzera: anche lì si vota. In un paese dove
la privacy è un valore sacro, ogni gesto quotidiano — dal firmare un contratto
telefonico all’acquistare una bottiglia di vino — è avvolto da un velo di
riservatezza. Le leggi sul segreto bancario, oggi molto attenuate, nacquero per
proteggere i cittadini dagli occhi indiscreti dello Stato. Ancora oggi, per
sentenza del Tribunale federale, Google Street View deve sfocare le immagini
vicino a scuole e ospedali.
Questa cultura del silenzio non è complicità: è un invito a
riflettere. Soprattutto in un’epoca in cui tacere viene spesso frainteso come
assenso.
Eppure, mentre parliamo di neutralità o silenzio, i nostri
governi continuano — e continueranno — a vendere armi, a chiudere porti, a
negoziare accordi che sacrificano vite lontane per la stabilità di quelle
vicine. La neutralità, a volte, è solo un’altra forma di complicità.
Gaza: il cuore spezzato che il mondo preferisce dimenticare
Poi c’è Gaza. Quel cuore spezzato. Quella ferita aperta
senza fine.
I padri hanno seminato vento; i figli raccolgono tempesta.
Ma non viene loro dato nemmeno il vocabolario per nominarla,
gli strumenti culturali per comprenderla, la memoria per riconoscerne le
radici.
Ciò che chiamiamo “conflitto” è in realtà il perdurare di un
colonialismo storico — non archiviato, non elaborato, solo trasferito di
generazione in generazione, come un debito che nessuno ha contratto ma tutti
devono pagare.
Alcuni potenti estraggono questo conflitto dal suo contesto
storico per giustificare interessi geopolitici. La nostra impressione è amara:
il sacrificio di queste persone rischia di non servire a nulla. Come in tante
guerre, passate e presenti, le vite umane diventano pedine in un gioco che non
le riguarda.
Il silenzio su Gaza non è assenza di voce, ma imposizione di
oblio. Mentre il mondo discute di alleanze e sanzioni, la Striscia rimane
soffocata — non solo dall’assedio israeliano, ma anche dalla rimozione storica
operata da chi preferisce leggere il conflitto solo in termini di “sicurezza” o
“antisemitismo”, dimenticando le sue radici coloniali.
Per capire Gaza oggi, bisogna tornare al 1948: l’anno della
Nakba, la “catastrofe” in cui oltre 700.000 palestinesi furono espulsi o
fuggirono dalle loro case con la nascita dello Stato di Israele. Molti finirono
a Gaza, trasformando una città costiera di 70.000 abitanti in un rifugio
sovraffollato per quasi un milione di profughi. Oggi, nella Striscia vivono
circa 2,3 milioni di persone — oltre il 70% sono rifugiati registrati presso
l’UNRWA.
Questa non è una crisi improvvisa. È il risultato di decenni
di esclusione, controllo e frammentazione del territorio palestinese —
politiche che affondano le radici nel mandato britannico (1917–1948) e nella
Dichiarazione Balfour, con cui il Regno Unito promise un “focolare nazionale
ebraico” in Palestina, ignorando completamente i diritti della popolazione
araba autoctona.
Il colonialismo non è un capitolo chiuso: si è trasformato,
adattato, ma non è scomparso. L’occupazione della Cisgiordania e l’assedio di
Gaza — in vigore dal 2007 — sono forme contemporanee di controllo coloniale:
separazione fisica, limiti alla libertà di movimento, distruzione sistematica
di infrastrutture, blocco di cibo, acqua ed energia. Gaza è spesso definita “la
più grande prigione a cielo aperto del mondo”, ma questa metafora rischia di
nascondere una verità più scomoda: non è solo una prigione, ma un laboratorio
di gestione coloniale della popolazione.
La diaspora palestinese — sparsa in Libano, Giordania, Cile,
Stati Uniti, Europa e oltre — porta con sé questa memoria. Non è nostalgia: è
un archivio vivente di ingiustizia non risolta. Molti discendenti dei profughi
del 1948 conservano ancora le chiavi delle case da cui furono cacciati: simboli
di un diritto al ritorno mai riconosciuto.
Eppure, mentre altre lotte post-coloniali hanno trovato
spazio nei dibattiti globali, quella palestinese viene spesso marginalizzata,
strumentalizzata o ridotta a un “conflitto religioso”.
L’attuale guerra a Gaza — scatenata dall’attacco di Hamas
del 7 ottobre 2023 — non può giustificare la violenza indiscriminata contro
un’intera popolazione civile, né cancellare decenni di occupazione e assedio,
specie se si sa che questa spirale di distruzione non porterà a nulla se non a
più dolore, più rancore, più silenzi imposti.
Secondo le Nazioni Unite, da ottobre 2023 a oggi oltre
35.000 persone sono state uccise a Gaza, la maggior parte civili, tra cui
migliaia di bambini. Ospedali, scuole, interi quartieri sono stati rasi al
suolo. Eppure, mentre si discute di “cessate il fuoco”, raramente si parla di
giustizia, riparazione o decolonizzazione.
Il mondo dimentica Gaza non perché non ne senta parlare, ma
perché preferisce non ascoltare la sua storia intera.
E finché si continuerà a separare la cronaca dall’archivio,
la guerra dalla memoria, la politica dalla storia, il cuore spezzato di Gaza
resterà — volutamente — fuori dal quadro.
Ma forse, proprio da chi si sente “nessuno”, può nascere la
volontà di guardare quel quadro per intero — e di chiedere, con rispetto e
fermezza: “Fino a quando?”
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